L’UNIVERSITÀ DI MILANO HA CONFRONTATO I DATI RACCOLTI DAL 1985 AL 2010 E PARLANO CHIARO: LA CARNE ROSSA O LAVORATA NON PROVOCA IL CANCRO AL COLON-RETTO.
Fonte CarniSostenibili.it
Quando si parla in termini negativi di produzione e consumo di carne o salumi, spesso si tende a considerare i contesti statunitense, nordeuropeo o anglosassone in generale. Ma è giusto continuare ad attaccare il settore zootecnico italiano, gli stili di vita del Belpaese e addirittura le tradizioni legate alla dieta mediterranea usando dati che nulla hanno a che vedere con quanto e cosa mangiamo in Italia?
Finalmente, oltre alle (mal interpretate) classificazioni IARC e ai recenti attacchi alla carne rossa da parte del British Medical Journal (basati anch’essi sui soli consumi USA), un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano ha riportato la discussione sul contesto italiano.
E dopo avere speso ben 32 anni a raccogliere dati in tutta Italia sulla relazione fra il consumo di carni rosse e trasformate e lo sviluppo di forme tumorali come il cancro del colon-retto, ha pubblicato su Nutrition and Cancer il più ampio studio multicentrico condotto nel nostro Paese sul tema, dimostrando una volta per tutte che, in Italia, non emerge un’associazione tra gli attuali consumi di salumi della popolazione generale italiana e il tumore al colon-retto.
Ne parliamo con uno degli autori della ricerca: Carlo La Vecchia, Ordinario di Statistica Medica ed Epidemiologia dell’Università degli Studi di Milano e membro del Comitato Scientifico di IFMeD, International Foundation of Mediterranean Diet.
Professore, vuole spiegarci di cosa si occupa, e cosa avete scoperto grazie allo studio che avete recentemente pubblicato su Nutrition and Cancer?
Mi occupo di statistica medica ed epidemiologia, e da oltre trent’anni mi sono dedicato soprattutto alla distribuzione e alle cause dei tumori nell’uomo.
In questa analisi abbiamo raccolto i dati di tre studi-caso controllo italiani, condotti in tre diversi periodi dal 1985 al 2010 su oltre 10.000 soggetti (3.745 casi e 6.804 controlli) per verificare l’eventuale relazione tra il consumo quotidiano di carni lavorate e il rischio di cancro del colon-retto.
Questo è infatti il tumore più frequente, in entrambi i sessi, negli individui che non fumano.
Un tumore importante, quindi, che è anche quello principalmente legato ad aspetti della dieta quali il consumo di carni rosse e lavorate.
I risultati della nostra analisi, condotta sulla popolazione italiana in diverse aree e regioni (da Milano a Pordenone, da Genova a Roma a Napoli) sono largamente rassicuranti, perché l’associazione tra il consumo di carni lavorate e il rischio di tumore al colon-retto in Italia è di fatto non statisticamente significativa.
Il rischio relativo per il livello più alto di consumo è 1,04 – quindi molto vicino all’1.
I motivi per cui questi risultati possono essere ritenuti validi sono almeno due: il primo è ovviamente legato alle caratteristiche delle carni lavorate italiane, che sono diverse da quelle più diffuse in Nord Europa e in Nord America, dove peraltro è stata condotta la maggior parte degli studi pubblicati.
Il secondo motivo è legato ai consumi italiani, che sono moderati. Il consumo medio di carni lavorate in Italia oscilla tra i 15 e i 20 grammi al giorno, che è fra un terzo e un quarto del consumo registrato in molti altri Paesi d’Europa e del Nord America. Questo può spiegare l’assenza di associazione significativa che noi abbiamo riportato nel nostro studio tra il consumo di carni lavorate in Italia e il rischio di sviluppare appunto il tumore del colon-retto.
Vuole ricordarci cosa ha detto la IARC sulla carne rossa e i salumi? C’è ancora che crede che siano cancerogeni come il fumo e l’amianto…
Innanzi tutto l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro è un ‘agenzia indipendente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi non rappresenta necessariamente il punto di vista globale dell’OMS stessa. Il secondo punto è che le monografie della IARC non si occupano e non pubblicano quello che in inglese si chiama “risk assessment”, in italiano valutazione del rischio, ma pubblicano semplicemente la cosiddetta “hazard evaluation”, ossia la valutazione del pericolo.
In altre parole, non forniscono stime quantitative di rischio, ma si limitano a classificare le varie sostanze o le varie esposizioni come associate, probabilmente associate, potenzialmente associate o con evidenza inadeguata per un pericolo di cancro nell’uomo. È questo il principale problema nel paragonare esposizioni alle carni rosse come quelle al tabacco o all’amianto.
È vero che le carni lavorate sono classificate nella stessa categoria di “pericolo”, ma è anche ovvio che l’entità del rischio di tumori o di tutte le altre patologie a cui è esposto un fumatore è totalmente diverso da quello che si può correre mangiando carni rosse o lavorate.
L’errore che viene fatto è trasferire in maniera acritica che la IARC faccia una classificazione delle sostanze e delle esposizioni a un rischio, e quindi dire cose inesatte come “la carne è uguale al tabacco”. Questo è un errore particolarmente grave dal punto di vista della prevenzione dei tumori e in generale delle malattie, perché quando la comunicazione è fatta in maniera acritica c’è il rischio che il pubblico ritenga che tutto fa venire il cancro o che tutto fa ammalare, non riuscendo più a distinguere le vere cause del tumore da quelle false.
Recentemente il Dr. Berrino, sul programma di Raitre “Indovina chi viene a cena”, ha più volte ribadito un rapporto di causa effetto fra il consumo quotidiano di carne e salumi e la probabilità doppia di sviluppare cancro all’intestino. E’ davvero così?
Come dicevo prima, questo è un problema di quantificazione. La IARC non ha mai quantificato questo rischio, e comunque per definire l’entità di rischio dobbiamo definire anche la quantificazione dell’esposizione. Se ne può discutere, ed è anche possibile che consumi estremamente elevati di carni rosse e/o lavorate possano portare a rischi fino a questo livello.
Ma di fatto i consumi che noi osserviamo nella popolazione italiana all’interno di una dieta mediterranea, che peraltro include in quantità limitata il consumo di carni rosse e salumi, non riflettono rischi apprezzabili di tumore dell’intestino.
Quali effetti pensa che possano avere alla lunga e a livello epidemiologico gli allarmismi alimentari che i media e la tv, a partire da quella pubblica, stanno continuamente diffondendo in questo periodo?
Una comunicazione non corretta ha ovviamente effetti sfavorevoli, sia perché come accennavo impedisce o rende più complicato comprendere quali sono le effettive cause delle malattie, sia perché può portare a delle cattive interpretazioni, o a delle contraddizioni: pensiamo a chi non mangia carne e poi fuma. C’è anche la possibilità che qualcuno, estremizzando il messaggio, adotti diete così restrittive da portare poi a carenza di nutrienti o micronutrienti importanti.
Per quel che concerne la dieta vegana, anche gli adulti non possono essere vegani se non assumendo una supplementazione di vitamina B12, un micronutriente essenziale per non soffrire (e morire) di anemia. I bambini poi sono ancora più esposti a queste estremizzazioni della dieta, perché devono crescere e perché i più piccoli hanno bisogno di una dieta che comprenda molti nutrienti e micronutrienti.
Quindi il fatto che un messaggio possa essere male interpretato perché non contiene informazioni quantitative definite che possano orientare delle scelte è indubbiamente un problema.
Un’altra cosa da sottolineare è che in fondo la dieta italiana, che fa parte della famiglia delle cosiddette diete mediterranee, è una buona dieta. Tant’è vero che in Italia e negli altri Paesi del bacino Mediterraneo l’attesa di vita è fra le più elevate del mondo.
Quindi è grazie alla dieta mediterranea se viviamo mediamente più a lungo?
Noi abbiamo storicamente questa tradizione che riguarda come mangiamo, ma anche come viviamo. Dieta in greco antico significa stile di vita, quindi include anche un certo modo di comportarsi, e oggi di evitare obesità e sovrappeso – primi veri problemi legati alla salute quando oggigiorno si parla di alimentazione. Molto importante è anche la sostenibilità della dieta mediterranea, sia dal punto di vista della produzione che da quello del mantenimento del nostro territorio. Tutto questo per dire che, prima di adottare diete estreme rifiutando il nostro modello di vita e di alimentazione, bisogna essere estremamente cauti.
Oltre alle quantità di carni e salumi, quali altre differenze si possono evidenziare fra il contesto italiano e quelli anglosassone e nordeuropeo in termini di salute?
C’è una differenza a livello di stili di vita che, tra le altre cose, implica anche una maggiore attenzione per il controllo del sovrappeso, peraltro favorita da fattori ambientali e climatici. C’è da considerare che il bacino mediterraneo è godibile non solo per la qualità della sua dieta, ma anche per la bellezza del suo paesaggio e la possibilità che offre di fare vita all’aperto e così via.
Per quanto riguarda poi la specificità della dieta mediterranea, già dagli anni ’50 e ’60 lo studioso americano Ancel Keys ne dimostrò la bontà a livello di prevenzione dell’infarto e delle malattie cardiovascolari in generale. Successivamente, dagli anni ’80 in poi, si è notato un suo impatto favorevole e considerevole non solo a livello di patologie cardiovascolari, ma sulla mortalità in generale; a partire dai tumori del tratto digerente, quelli maggiormente legati alla nostra alimentazione.
Cosa via ha portati a fare questa ricerca, incentrata finalmente sul contesto italiano invece che basata come al solito su dati relativi al mondo anglosassone?
I dati che abbiamo presentato li abbiamo raccolti in oltre trent’anni di tempo. Il focus di questa analisi è stato essenzialmente dato dalla pubblicazione della monografia della IARC, che ci ha spinti a riportare alla realtà italiana il problema che anche in Italia era stato sollevato appunto su carni rosse e lavorate dalla classificazione IARC/OMS.