LORENZO COGO, TITOLARE DEL RISTORANTE EL COQ, A MARANO VICENTINO, È LA STELLA MICHELIN PIÙ GIOVANE, CON LA CUCINA NEL NOME E LA BRACE NEL SANGUE.
Quel gran tiratore che è il destino non avrà dovuto neppure prendere la mira per centrarlo. Lorenzo Cogo è un bersaglio mobile ma magnetico. Dicevano gli antichi: “nomen omen“, il nome è un presagio. E se in dialetto veneto “cogo” significa cuoco, è davvero troppo facile. Figlio d’arte (suo padre Mariano è proprietario del bistrò “dal Cogo”), Lorenzo è un Ulisse contemporaneo: va zigzagando tra i continenti per riapprodare a Itaca, la sua Vicenza. Classe 1986, l’enfant prodige della gastronomia italiana a soli 25 anni riceve la sua prima stella Michelin, quando apre il ristorante El Coq, a Marano Vicentino.
Ma Lorenzo armamenta tra fuochi e fornelli sin da quando gli serviva «ancora uno sgabello per riuscire ad arrivare al piano, per pelare le patate». Parte dal Vue de Monde di Shannon Bennet, a Melbourne. A Sydney incontra il celebre Mark Best nel suo Marque Restaurant. Poi l’estremo oriente: nella terra del Sol Levante assorbe invece la tecnica ed il rigore giapponese con Seiji Yamamoto, che da buon sensei gli insegna come selezionare le materie prime e rispettare la tradizione. E poi la “fiamma” di Victor Arguinzoniz: nei Paesi Baschi impara a dominare il fuoco e la brace, diventa sous-chef da Etxebarri. Prima del debutto solista con il suo ristorante El Coq, un apprendistato al Noma di Copenhagen, al fianco di René Redzepi, Lorenzo Cogo viaggia, esperimenta, impara e reinventa. La sua è una “cucina istintiva” e la brace è il suo ingrediente preferito. Parte del suo destino. O per chi non ci crede, del suo Dna..
Lorenzo, cos’è per te la cottura alla brace e dove l’hai “scoperta”?
«In Italia, e in particolare dalle mie parti, a Vicenza, c’è la cultura dello spiedo: la brace quindi è un elemento fondamentale. L’ho poi riscoperta in Spagna, in versione gourmet – diciamo in una versione più personale – lavorando da Etxebarri, che è considerato il miglior ristorante al mondo ad utilizzare principalmente la brace. Da lì ho capito la connessione col mio territorio, la mia storia e la mia infanzia. Sono cresciuto coi miei nonni perché mio padre era sempre al ristorante a cucinare. La prima cosa che si faceva la mattina era accendere la stufa. Quindi il profumo della brace, della legna e del fuoco sono sempre stati elementi fondamentali nella mia crescita. Possiamo dire che erano già nel mio Dna. Da Etxebarri però ho scoperto che la brace può essere uno dei più importanti ingredienti. Io ora vedo la brace non come un elemento di cottura ma come un ingrediente, qualcosa che rende un prodotto speciale. È questa la visione diversa dagli altri».
«Nella nostra tradizione la brace è stata sempre fondamentale ma raramente ci si è posti il problema di come poter “fare meglio”. Forse è un trend che sta arrivando negli ultimi anni, ma spesso anche nelle migliori trattorie si pensa che se si è sempre fatto in un certo modo si deve per forza continuare così. invece bisogna mettersi in discussione, soprattutto con questa tipologia di cottura, che è tutt’altro che semplice. Bisogna prima di tutto capirla, ascoltarla. Bisogna avvicinarsi con attenzione al fuoco, non si tratta di un fornello che accendi e spegni, alzi ed abbassi a tuo piacimento. Ho dovuto capire che per dare il giusto valore ad un grande ingrediente come la brace dovevo lavorare con altri ingredienti di altissima qualità. Victor Arguinzoniz mi ha insegnato che un grande ingrediente viene esaltato dalla brace, ma se si utilizza un ingrediente scarso, la brace eleva il difetto».
La tua è una cucina “isitintiva”. Se la brace è istinto significa che è qualcosa di primitivo? Come la rendi contemporanea?
«Sì, il contemporaneo lo trovi nella personalizzazione. Quando ti poni il problema di “fare meglio” per me è già cucina contemporanea. Non è il volerlo “fare strano”, ma è il volerlo “fare meglio”, niente di più. L’uso di altri ingredienti è un plus. Ma credo che già l’approcciarsi con maggiore conoscenza a una tecnica, ad un ingrediente sia contemporaneo. Dalla selezione del materiale di base, alla scelta del legno, sono tutti dettagli, sottigliezze e accorgimenti che fanno la vera differenza».
Spagna, Australia, Giappone e poi back to Italy: la brace è uguale per tutti? Cosa hai portato a casa dai tuoi viaggi?
«Ci sono modi e stili davvero diversi: i due estremi li ho trovati nel modello asiatico rispetto a quello europeo. In Giappone lavorano con il carbone fossile, che sviluppa un calore “folle”, sopra i 1200 gradi. Sono cotture totalmente diverse dalle nostre. Non si cuoce uno spiedo 6, 8 ore come qui ma si fanno cotture rapide, forti ed intense. I giapponesi sono più millimetrici ma estremamente rapidi. Noi siamo lenti. Sono culture e storie diverse. A volte ci si chiede perché cuocere una pietanza per 8 ore. Mi rispondo che probabilmente dipende dalla nostra storia e dalla storia del cibo: prendiamo il caso della cacciagione. Pensiamo alla beccaccia, ad esempio, che da noi usa cuocersi per tantissime ore. Fino a 50, 60 anni fa dovevi aspettare di mettere assieme una ventina di uccelli per farti una mangiata. Capisci che, senza congelatore, la carne necessitava di una cottura lunga. Ma oggi i tempi sono cambiati: anche quelli di cottura! In Spagna preparavo la beccaccia al sangue. Se la proponi qui da noi ti prendono ancora per matto. Penso invece sia arrivato il momento di ragionare e interrogarsi, di capire cosa si ha in mano e in che modo realizzare le cotture migliori».
Tra gli strumenti del mestiere so che hai un forno ideato da Paolo Parisi. Di che si tratta?
«Non appena aperto il ristorante, ho avuto la fortuna di incontrare Paolo Parisi che mi ha messo a disposizione l’oggetto per me ormai sacro: il formo a brace. A quel tempo si chiamava My Oven, strumento perfetto per una cucina di piccole dimensioni e con l’ambizione di cucinare con il miglior metodo al mondo ovvero la brace. Dopo 3 anni di sviluppi l’avventura My Oven termina con Paolo Parisi e ne inizia una nuova ribattezzando il forno X Oven. Il mio percorso è proseguito dunque sempre a fianco di Paolo con l’introduzione del nuovo nato di origine pugliese “Lu Furnu”. Si tratta sempre di un forno a brace, ma a spicchi. Paolo ha portato avanti una mia richiesta di sempre: avere due camere separate indipendenti. Lu Furnu ha la camera divisa in due. Lo trovo una soluzione perfetta ed è quello che ho tutt’ora in cucina. ».
Cosa scegli per fare la brace?
«Il carbone lo prendo da vari fornitori. L’importante per me è che ci sia abbondante faggio, che rappresenta la mia base: è un legno molto resistente nella brace. Poi lavoro molto con i frutteti, dove posso recuperare bei pezzi di vite, melo e altro di origine biologica – altrimenti tutti i pesticidi e i trattamenti sarebbero trasmessi al cibo.
Come ti regoli per l’acquisto della carne e del pesce?
La selezione della carne è all’80% locale, il pesce viene da Chioggia, qui vicino: sono tutti prodotti che riesco a reperire da fornitori di fiducia».
Hai nuovi progetti per quest’anno?
«Certo, siamo in procinto di trasferirci da Marano Vicentino al centro di Vicenza, in piazza dei Signori. Un posto nuovo ma con i nostri soliti grandi ingredienti. Vogliamo proporre in due ambienti diversi due stili diversi: quello gourmet, la massima espressione del ristorante accanto ad un bistrot più semplice, più facile ed accessibile».
Di Enrico Cicchetti 27/05/2016
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