PAESE CHE VAI OSTERIA CHE TROVI E LE DIFFERENZE NON SONO SOLO NEI NOMI REGIONALI DI QUESTI LOCALI MA ANCHE NELLA STORIA E NEI MENU SCELTI ANDIAMO ALLA SCOPERTA DI TUTTE LE DIVERSE OSTERIE D’ITALIA
Conoscete i crotti alpini? E le piole torinesi? E le fraschette romane? Probabilmente ci avete pure mangiato ma non avete fatto caso al nome. Capita. Soprattutto se c’è il vino a farvi compagnia (e in tal caso avete pure un alibi che regge). Noialtri, che beviamo solo dopo aver scritto, siamo andati alla ricerca dei luoghi più insoliti dove avvengono le italiche abbuffate (e bevute).
Poi, una volta completato questo viaggio, una bevuta ce la siamo fatta. Semplicisticamente vengono spesso inserite nella macro categoria delle “osterie”, ma c’è molto di più. Ecco dieci luoghi insoliti, tipicamente regionali e ad alto contenuto calorico che abbiamo solo noi in Italia. E sono uno meglio dell’altro.
LE OSTERIE D’ITALIA: I CROTTI ALPINI
Cominciamo il nostro viaggio dall’estremo nord Italia. E in particolare nelle zone del lago di Como e della Valchiavenna. Qui esistono delle cavità naturali tipicamente alpine note come crotti. All’interno di questi anfratti spira continuamente una corrente fredda chiamata sorèl che stabilizza la temperatura, sia d’estate che d’inverno, intorno agli 8 gradi centigradi. I crotti sono quindi luoghi idonei per la conservazione dei cibi: bresaola, formaggi e vini. E quindi spesso ospitano taverne che offrono piatti tipici del luogo, come pizzoccheri e polenta.
LE OSTERIE D’ITALIA: LE PIOLE TORINESI
A Torino le osterie si chiamano piole. Nome che viene dall’antico verbo francese pier (bere), dal quale è poi derivato il termine medioevale piaule o piolle che significa appunto “luogo dove si va a bere”. Le moderne piole si sono convertite in birrerie o anche in locali di una certa pretesa, ma fino agli anni ’60 erano modeste se non laide e spesso restavano aperte tutta la notte. Un’altra usanza era che gli avventori suonassero il pianoforte al centro della sala accompagnando vere e proprie romanze d’opera, col rischio per chi non si dimostrava all’altezza di prendersi qualcosa in testa. Insomma, una sorta di corrida ante litteram. Di tutt’altra dimensione le piole di campagna, caratterizzate invece da tavoli di cemento sotto il pergolato e campi di bocce.
LE OSTERIE D’ITALIA: LA SA PESTA GENOVESE
Un tipico modo di dire genoano è “da sâ pesta“. Ma che vuol dire? In pratica i genovesi, probabilmente per dirsi “ci vediamo in trattoria“, citano l’antica denominazione di un locale ubicato in via dei Giustiniani. Questa trattoria, che ora si chiama solo Sa Pesta, in passato era una semplice rivendita di sale raffinato. Più tardi però avrebbe incluso anche altri generi alimentari nel suo commercio (pane e vino) e a quel punto il passo per l’apertura di un’attività di ristorazione è stato breve. Una curiosità: in Liguria le osterie vengono chiamate bettoa, molto simile all’italiano bettola, che secondo l’antico dizionario del Bellini indica “un’osteria dove si vende vino al minuto, ed alquanto di camangiare”. Ovvero verdura commestibile. E guarda caso O Sa Pesta, l’oste, oltre alla farinata serve anche torte di verdura.
LE OSTERIE D’ITALIA: I BACARI VENEZIANI
A Venezia invece si va “a far bacara” (festa) nelle tante osterie dei vicoli chiamate appunto bacari o bacaréti. Locali di piccole dimensioni con pochi posti a sedere, più che altro sgabelli, accostati come nei bar a un bancone vetrinato. La specialità della casa è il vino in calice, ma si servono anche prodotti comunemente detti cicheti o spincioni (cibi di varie forme a base di pesce). Ma come mai questi locali si chiamano bacari?
I bacari in realtà erano dei vignaioli che in Piazza San Marco vendevano vino assieme a degli spuntini. Ai clienti offrivano un bicchiere chiamato ombra, perché i venditori seguivano l’ombra del campanile per proteggere il vino dal sole. E in seguito, per evitare il faticoso trasporto dei barili, questi vinai avrebbero rimediato dei locali da usare come magazzini o mescita. E da qui è nata la tradizione delle osterie veneziane.
LE OSTERIE D’ITALIA: L’OSMIZA FRIULANA
Le osmize sono le osterie nate sull’altopiano del Carso fra l’Italia e la Slovenia. Si tratta però di osterie a tempo, perché in realtà sono cantine o locali dove i contadini producono vino e altri prodotti tipici: salumi e formaggi. Restano quindi aperti poco più di una settimana e la scelta del periodo dipende dalla volontà dei proprietari.
Usanza questa che risale addirittura ai tempi di Carlo Magno, che con un ordinanza concedeva a tutti i viticoltori dell’impero il diritto di vendere direttamente il loro vino a patto che si segnalasse la vendita con una frasca d’edera. Disposizione ripresa poi nel 1874 da Giuseppe II d’Asburgo che confermò tale diritto per un periodo di otto giorni.
E infatti il termine osmiza viene da osem che significa appunto otto.
LE OSTERIE D’ITALIA: LE FRASCHETTE ROMANE
Anche le fraschette romane risalgono al Medioevo e la loro origine è da ricercare nell’antica Frascati, piccolo comune vicino a Roma. Qui i viticoltori del tempo erano soliti apporre all’ingresso dei loro locali una frasca per comunicare agli avventori che il vino novello era pronto.
Il locale, arredato alla meglio con botti, panche e tavolacci di legno, non aveva però una cucina e i clienti quindi si portavano il cibo da casa. Cibo avvolto in un fagotto che diede loro il nome di fagottari, a cui il frascaro (l’oste) dava la foglietta, ossia il quartino di vino. Poi col tempo le fraschette hanno cominciato a proporre anche salumi, formaggi e infine piatti tipici del Lazio come la pasta alla carbonara o la porchetta di Ariccia.
LA CARÈRA – ABRUZZO, TRENTINO, PIANURA PADANA
In alcune regioni d’Italia come l’Abruzzo e il Trentino Alto Adige per dire osteria si usa il termine carèra. Ma perché, che vuol dire? In realtà questa non è una parola dialettale, ma fa parte di un linguaggio chiamato Gaìn o Gaì, inventato all’inizio del secolo scorso dal commerciante e pastore Giuseppe Facchinetti.
Ma per quale motivo questo signore bergamasco si è inventato il Gaìn? Perché all’epoca i pastori con le loro greggi, soprattutto nella Pianura Padana, erano mal tollerati dai contadini, che nutrivano nei loro confronti un’accesa rivalità. Da qui dunque il bisogno di un linguaggio comprensibile solo ai pastori, che così si davano appuntamento in osteria senza timore di essere compresi.
FORNELLI E CANTINE PUGLIESI
Spesso quando si parla della Puglia si menzionano i fornelli delle Murge ovvero quelle macellerie dove la carne, oltre a essere venduta, viene anche cotta in appositi forni. Una tradizione nata in occasione delle feste patronali, o forse solo per soddisfare le esigenze dei contadini, che dopo un’intensa giornata di lavoro non avevano tempo o voglia di cucinare.
Tuttavia in Puglia anche le cantine fungono da osterie. Nel foggiano in particolare sono proliferate durante l’occupazione alleata. Quando però gli americani se ne sono andati molti di questi locali hanno dovuto chiudere i battenti, lasciando comunque il ricordo di luoghi vivaci, dove si faceva musica, si giocava a carte e soprattutto dove non mancava da bere e da mangiare. E ancora oggi queste osterie ingolosiscono gli ospiti con i piatti tipici del territorio: lumachelle, verdure di stagione, frittelle e fritture di agostinelle.
E da bere? L’oste consiglia del buon Taurasi.
LA POSADA SARDA
I sardi chiamano le osterie in tre modi diversi ostéra, isterìa e posada. I primi due termini sono più simili all’italiano, l’ultimo invece ha evidenti influssi spagnoli. Il perché è facile da spiegare.
La Sardegna è stata per oltre due secoli sotto la dominazione della Spagna, per cui la lingua di questo Paese ha fortemente contaminato il dialetto dell’isola. Infatti, posada in castigliano significa locale situato lungo una strada adibito a fornire vitto e alloggio.
LA PUTIA DI VINU IN SICILIA
In Sicilia con l’espressione putia di vinu si intende un’antica bottega che fungeva da luogo di incontro per operai e contadini. Ha avuto quindi un ruolo importante nella storia sociale dell’isola, anche se a volte si trattava solo di rivendite provvisorie aperte al massimo per una mesata.
E ancora oggi sono definiti putii quei negozietti che vendono vino sfuso per portarselo a casa o magari consumarlo in loco. Ma se oggi la moderna putia ha un arredamento più elaborato, quella di un tempo invece era spartana: panche e tavoli di legno senza tovaglie e qualche ramo di carrubo all’ingresso per segnalare l’attività.
Il menu? In genere una semplice cucinata di ceci. In momenti di festa, invece, anche pollo e coniglio e più di rado trippa e spezzatino.
Storie diverse, ma accomunate da un unico grande piacere: quello per il buon cibo. Perché, come disse una volta il cardinale Ersilio Tonini, “le osterie sono un bene universale“. Amen, così sia!
di Alberto Incerti 06/01/2017