“La carne non fa male”, a questa conclusione sembra giungere una recente pubblicazione scientifica, almeno seguendo i titoli enfatici lanciati dai media. Un altro studio di alcuni mesi fa, invece, presentava un quadro ben diverso. Dopo aver chiesto al professor Enzo Spisni – fisiologo della nutrizione dell’Università di Bologna – se il latte fa bene o male, stavolta lo abbiamo interpellato per analizzare e comprendere meglio se la carne fa male, alla luce delle conclusioni delle ultime ricerche sulla sua nocività e dei suoi nutrienti.
LA CARNE FA MALE O NO? LA RICERCA SUL BMJ
Lo scorso 9 maggio, sulla rivista scientifica British Medical Journal (BMJ), è stato pubblicato uno studio sulla nocività della carne. La ricerca si è basata su un’analisi condotta negli USA nell’arco di sedici anni, con un campione complessivo che supera il mezzo milione di individui, fra i 50 e i 71 anni. In sintesi, si dimostrerebbe che l’aumento del consumo di carne rossa – a maggior ragione se lavorata – si associa alla crescente possibilità di decesso e allo sviluppo di nove differenti patologie. La lista comprende i tumori, le malattie cardiache e respiratorie, il diabete, l’ictus, le patologie epatiche e renali, l’Alzheimer e le infezioni.
LO STUDIO EVIDENZIA CHE…
Gli autori sottolineano la nocività del ferro eme – del quale sono ricche le carni rosse – e soprattutto dei nitriti e dei nitrati, conservanti utilizzati nei salumi e nelle carni lavorate, che abbiamo trattato in un precedente approfondimento. Da evidenziare, inoltre, è la formazione di carcinogeni favorita da determinate cotture delle carni, oltre ai contaminanti che possono essere presenti nei mangimi degli animali. Va anche considerato il fatto che un alto consumo di carne comporta una presenza proporzionalmente troppo scarsa di vegetali freschi nella dieta, fondamentali per contrastare molti dei rischi sopra elencati.
Del resto, come affermano gli autori, l’uomo contemporaneo mangia un quantitativo di carne dieci volte superiore a quello assunto dai nostri avi primitivi, con un apporto proteico animale che copre un quinto del fabbisogno energetico. Alle conseguenze negative causate da questo stile alimentare, si aggiungono le criticità produttive e ambientali dovute agli allevamenti intensivi, dei quali abbiamo parlato in un nostro approfondimento. In un altro articolo, inoltre, abbiamo visto cosa può provocare l’utilizzo eccessivo di antibiotici nella zootecnia. Consultando questo studio, pertanto, è difficile poter affermare perentoriamente che la carne non fa male, tuttavia la ricerca precisa che le carni bianche non lavorate comportano un fattore di rischio inferiore del 25 per cento rispetto a quelle rosse.
IL PARERE DEL PROFESSOR SPISNI
Enzo Spisni conferma i contenuti emersi dalla ricerca, e parlando della cottura della carne sottolinea che “l’impatto delle alte temperature produce sostanze cancerogene. Questo aspetto è assodato, soprattutto in relazione allo sviluppo di tumori al colon-retto. La cottura può avere un’influenza negativa proprio sulla carne, nella sua tossicità complessiva, perché anche i grassi subiscono notevoli alterazioni, compresi i monoinsaturi e i polinsaturi, che pur presenti in piccole quantità, diventano tossici se portati ad alte temperature”.
Il professore aggiunge che “altrettanto conosciuta è la nocività dei nitriti e dei nitrati, noti cancerogeni. Se la presenza di questi conservanti si somma a una grigliatura, ad esempio, si crea un cocktail di carcinogeni (fattori chimici che favoriscono i tumori, ndr) davvero pericoloso”. Per entrare in un caso pratico, ecco perché i würstel o la salsiccia di bassa qualità – nei quali questi conservanti sono tipicamente presenti – sarebbero da evitare, a maggior ragione se cotti alla brace.
MEGLIO CRUDA CHE GRIGLIATA?
L’intervistato, però, ricorda che “la carne cruda ha altri fattori di rischio. Se vengono meno i problemi dovuti alla cottura, emergono quello di tipo batteriologico. Da questo punto di vista, è fondamentale che i prodotti crudi rientrino nei parametri previsti dalla legge. Sul piano della digeribilità, la cottura tende a denaturare le proteine e quindi dovrebbe favorire l’assimilazione della carne. Tuttavia, siamo molto ben adattati anche alla digestione della carne cruda. Di fatto, la carne ha una buona digeribilità sia cruda che cotta, discorso che vale anche per il pesce, per il quale è sempre importante scegliere ristoranti e rivendite di fiducia”.
CUOCERE A TEMPERATURE CONTENUTE
Spisni aggiunge che, per migliorare la salubrità, “basterebbe cuocere a basse temperature, sempre evitando le bruciature e la carbonizzazione. La carne lessata o cotta al vapore, ad esempio, subisce alterazioni molto minori. Purtroppo, sappiamo che sul piano del gusto la cottura migliore è proprio la grigliatura. La reazione di Maillard, che conferisce un buon sapore, è peraltro la stessa alla quale si deve la formazione di alcuni cancerogeni. Ad ogni modo, è sempre la dose che fa il veleno”.
MENO RISCHI CON LE CARNI BIANCHE
Confermando il dato quantitativamente notevole riportato dalla ricerca, il professor Spisni, aggiunge che “se si consumano carni bianche, la riduzione dei rischi del 25 per cento è attendibile. Queste carni non sono esenti da rischi, ma l’impatto negativo – massimo per le carni processate e alto per le carni rosse – è molto più basso. Il pesce, invece, non presenta i fattori di rischio della carne, grazie al suo contenuto di acidi grassi polinsaturi a lunga catena, ad azione antinfiammatoria e protettiva. Questa preziosa parte lipidica ‘bilancia’ le proteine animali e la nocività di metalli pesanti, talvolta presenti in elevata quantità nei predatori come tonno e pesce spada. Per questo motivo, il pesce è un alimento intrinsecamente superiore, anche rispetto al pollo”. A questo proposito, possiamo consigliare i nostri articoli sul pesce di stagione in ottobre e sui benefici degli omega 3.
PER UN ALTRO STUDIO LA CARNE NON FA MALE?
Una ricerca pubblicata il 29 agosto scorso sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet, e presentata al Congresso europeo di Cardiologia 2017, ha riacceso le speranze – almeno apparentemente – di chi non vedeva l’ora di sentirsi dire che la carne non fa male. Lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology) – guidato dall’Università canadese di Hamilton – fra i suoi obiettivi mirava a valutare l’impatto dei fattori di rischio cardiovascolare legati all’alimentazione. Tra il 2003 e il 2013, il campione ha coinvolto più di 130.000 individui fra i 35 e i 70 anni, di basso, medio e alto reddito, in 18 diversi Paesi nei cinque continenti.
A catturare l’interesse dei mass media è stata la conclusione secondo la quale, in estrema sintesi, ridurre l’assunzione di grassi non migliora la salute delle persone. Lo studio afferma che la dieta ideale dovrebbe apportare non più del 50-55% delle calorie derivate dai carboidrati e non più del 35% dai grassi, comprendendo sia quelli insaturi che quelli saturi. Sui giornali e sul web queste conclusioni sono state rapidamente interpretate come un via libera al consumo di carne e latticini, un aspetto che abbiamo accennato in un nostro articolo sul burro e sul quale abbiamo interpellato il professor Enzo Spisni.
MA L’ESPERTO DICE CHE…
L’intervistato conosce bene la ricerca in questione, in merito alla quale inizia col chiarire il quadro dei risultati. “PURE, in sostanza, conclude che nell’insorgenza di diverse patologie – e nella maggior parte di quelle cardiovascolari – è più rilevante l’assunzione di zuccheri e carboidrati rispetto all’assunzione di lipidi, apparentemente ‘scagionati’ da questa ricerca”.
Spisni prosegue evidenziando un aspetto fondamentale per comprendere questo studio, che è “ben fatto, ma se si valuta la composizione del campione analizzato si resta stupiti. Infatti, si accorpano i dadi di individui provenienti da Argentina, Bangladesh, Brasile, Canada, Cile, Cina, Colombia, India, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Malesia, Pakistan, Territori palestinesi occupati, Filippine, Polonia, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Sudan, Svezia, Tanzania, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Zimbabwe”.
NON SI POSSONO ACCOMUNARE ABITUDINI ALIMENTARI COSÌ DIVERSE
Enzo Spisni precisa che “è ovvio che tra lo stile alimentare dello Zimbabwe e quello del Canada ci sono differenze abissali. Lo studio PURE esegue una grossa media complessiva fra i risultati di Paesi molto diversi fra loro, nella maggior parte dei quali si consuma poca carne. Così facendo, è chiaro che ad emergere è l’idea che la carne non fa male. La conclusione, però, è sbagliata. Se si analizzassero i dati dei Paesi occidentali – dove si mangia più carne e nei quali la pericolosità dell’alimentazione ricca di grassi e proteine animali è dimostrata da decine di studi – i risultati sarebbero ben diversi. I dati scientifici raccolti da PURE sono corretti, ma le conclusioni non sono rappresentative della situazione occidentale. Nel campione sono presenti molti Stati asiatici, dove si consuma poca carne, e c’è anche lo Zimbabwe, dove invece esiste un problema di approvvigionamento alimentare. In entrambe le casistiche, si tratta di Paesi non paragonabili al nostro”.
L’ANALISI SUI MACRONUTRIENTI PUÒ ESSERE FUORVIANTE
Considerare singolarmente i macronutrienti non è la strada giusta secondo Spisni, il quale aggiunge che “questo studio realizza un’analisi per singolo macronutriente, ma non sui singoli Paesi. Vengono verificate le assunzioni di acidi grassi saturi, valutando che queste hanno un impatto negativo modesto sulle patologie cardiovascolari. Tuttavia, i grassi saturi mangiati in Canada e quelli mangiati nello Zimbabwe hanno origini alimentari totalmente diverse. Quindi, si capisce perché fare una media di questo tipo non è corretto”.
I GRASSI SATURI NON SONO TUTTI UGUALI
L’intervistato ricorda che altre pubblicazioni scientifiche hanno evidenziato le differenze fra gli acidi grassi saturi. “I più pericolosi acidi grassi saturi circolanti sono quelli a catena pari – tipicamente di origine animale, ma tra i quali si annovera anche l’olio di palma – mentre quelli a catena dispari, in genere di origine vegetale, sul sistema cardiovascolare hanno effetti molto scarsi. Addirittura, qualcuno di questi può avere anche un effetto protettivo, pur essendo saturo”.
Tornando alla ricerca in questione, pertanto, “ha senso analizzare i singoli acidi grassi o le fonti alimentari, ma fare una media complessiva dei grassi in popolazioni così diverse – dal punto di vista alimentare, di quota calorica e di abitudini –produce un’informazione che può essere facilmente mal interpretata”.
QUESTA RICERCA NON CAMBIA LE COSE
Lo studio PURE, inoltre, conclude che i carboidrati hanno un’associazione positiva (quindi nociva, ndr) con le patologie cardiovascolari, evidenza che, secondo Spisni, “non deve meravigliare, non si tratta di una novità. Le correlazioni fra i carboidrati, il diabete di tipo 2 e le patologie cardiovascolari, ad esempio, sono assodate”. In un nostro articolo abbiamo approfondito i danni dovuti a un eccessivo consumo di zucchero.
In generale, la ricerca in questione non svela verità che stravolgono le nostre conoscenze. Spisni conclude la sua disamina affermando che “la diminuzione della pericolosità dei lipidi dipende semplicemente dal campione esaminato. È molto significativo che al Congresso dei cardiologi 2017 – dove PURE è stato presentato – non sono state modificate le linee guidasugli acidi grassi saturi. Nel mondo scientifico, questa ricerca non ha avuto conseguenze rilevanti”. In merito agli articoli sulla carne che non fa male, possiamo semplicemente aggiungere che le informazioni vanno sempre presentate con equilibrio e senza cercare il clamore a tutti i costi.
HA SENSO CLASSIFICARE I NUTRIENTI ‘NOCIVI’?
Enzo Spisni esprime il suo parere sulla tendenza frequente di stilare classifiche fra i nutrienti considerati nocivi, come talvolta accade semplicisticamente sui media, dimenticando di considerare i cibi e i pasti nella loro complessità. “A me non piace comporre graduatorie sulle sostanze più ‘nocive’, scomponendo gli alimenti secondo le caratteristiche di singoli macronutrienti. Io non sposo questa visione, che in un certo senso rende gli alimenti tutti uguali. Viceversa, sono profondamente convinto che sia molto più importante e utile un’analisi complessiva sulla qualità degli alimenti”.
“Nella carne, ad esempio, ci sono tante cose che fanno male quando se ne mangia troppa. Più correttamente, c’è un’associazione di fattori di rischio fra i grassi, le proteine, le cotture e gli aspetti che dipendono dall’allevamento, soprattutto in relazione all’uso di antibiotici e ormoni. Sappiamo che nella zootecnia industrializzata ci sono problemi riguardo all’uso della chimica e alla qualità in generale, senza considerare il tema della sostenibilità. Io mangio carne di tutti i tipi, ma sto molto attento alla provenienza e alle quantità. Penso che siano queste le linee guida da seguire”.
di Roberto Serrentino – 5 ottobre 2017