IL NERO DI TROIA E’ IL TERZO BALUARDO VINICOLO DELLA PUGLIA AMBISCE A DIVENTARE UN GRANDE VINO IDENTITARIO E AD IMPORSI NEL MERCATO MA GLI OSTACOLI DA SUPERARE SONO ANCORA TANTI BRACIAMIANCORA NE HA INDIVIDUATI SETTE
L’uva di Troia è un vitigno a bacca nera della Puglia, spesso sottovalutato ma capace di produrre vini molto pregiati. Dello stesso livello di alcuni baroli o amaroni per intenderci. Il vitigno copre un’area molto estesa, praticamente tutto il nord della regione, con due grandi centri produttivi, la Daunia (o anche il Foggiano) e “Castel del Monte” (Provincia Bat).
Le sue origini sono incerte e si ammantano di leggenda. Forse fu l’eroe Diomede a portare questa uva nel Gargano o forse la portarono dei coloni greci, gli stessi fondatori dell’omonimo paesino di Troia (FG). E più tardi Federico II, che oltre alle fortezza di Castel del Monte aveva anche un palazzo imperiale a Foggia, pare abbia apprezzato tantissimo questo vino dal temperamento forte e fiero.
“Il nero di Troia in purezza presenta un colore granata trasparente con tannini duri,” spiega Pierluigi Cocchini referente Slow Wine (la costola che si occupa di vino per Slow Food). Caratteristiche che lo rendono idoneo al taglio con nettari più morbidi come ad esempio il Montepulciano. E in passato, grazie anche all’importante gradazione alcolica e alle ottime rese produttive, il nero di Troia è stato spesso usato per fare da spalla a vitigni più esili. Soprattutto del Nord Italia.
Fino a quando i produttori non si sono accorti che le potenzialità di questa uva sono troppo belle per regalarle ad altri. Così è cominciato il lavoro di valorizzazione teso a produrre un vino più raffinato e identitario.
NERO DI TROIA : PROGRESSI ANCORA INSUFFICIENTI
I risultati non sono tardati ad arrivare. Dal 2000 a oggi la superficie vitata a uva di Troia è passata da 1782 ettari a quasi 3000 ettari. E nel 2017 il nero di Troia è addirittura diventato il re della grande distribuzione. Vale a dire che nei supermercati regionali ha venduto più bottiglie di Primitivo e Negroamaro.
Un paradosso visto che, proprio dietro a queste due grandi vitigni, si erge a terzo baluardo della Puglia. Un paradosso che però rientra subito nella normalità non appena si confrontano le voci sulle esportazioni nazionali ed estere. Viene dunque da chiedersi perché, nonostante gli sforzi profusi, il nero di Troia non è ancora riuscito a scalare la classifica delle vendite nazionali? E soprattutto perché non è capace di esportare quanto altri blasonati vini italiani?
Braciamiancora ha indagato le cause scoprendo sette motivi che ne frenano il successo commerciale. Sette motivi che rappresentano anche sette spunti di riflessione per i produttori locali.
NERO DI TROIA : UN TANNINO NON FACILE DA DOMARE
La caratteristica più interessante del nero di Troia è certamente quella di esprimere un tannino molto generoso. Un pregio che però a volte diventa anche il suo tallone di Achille. Perché se il tannino non viene domato il risultato è quello di produrre vini poco equilibrati.
Per essere più chiari è meglio spiegare che cosa è il tannino o i tannini al plurale. I tannini sono una componente naturale del vino presente nel raspo, nelle bucce e nei vinaccioli (semi) dell’uva. Oltre ad avere proprietà conservanti e a influire sul suo colore, hanno anche un ruolo fondamentale a livello gustativo. Contribuiscono cioè a dare corpo e struttura al vino, conferendogli quella sensazione amara e astringente, di allappamento, che si percepisce al palato.
Ora un vino troppo tannico asciuga completamente la bocca mentre un vino con un tannino più equilibrato regala piacevoli sensazioni di pienezza e struttura. Ed è proprio questo l’ostacolo su cui certi produttori spesso inciampano.
NERO DI TROIA : MANCA UNA CONNOTAZIONE IDENTITARIA
Un secondo ostacolo alla commercializzazione del nero di Troia viene invece da una eccessiva interpretazione della sua uva. Con questo non si vuole affermare che non debbano esserci differenze anche marcate ad esempio fra la produzione foggiana e quella di Castel del Monte, ma solo che il parossismo interpretativo genera confusione.
“La colpa – sostiene Francesco Mucci curatore della guida Slow Wine – è dei produttori che si lasciano influenzare dal mercato dimenticando il territorio e le sue tradizioni. Nascono così vini poco identitari. Vini cioè che, mancando di un tratto comune, non riescono ad esprimere quelle che sono le caratteristiche proprie del vitigno”.
NERO DI TROIA : UN’UVA CHE VA INTERPRETATA
Ma se si sostiene che il mercato ha le sue colpe si può anche sostenere che l’identificazione nero di Troia-territorio è in realtà un work in progress. Un processo ancora in corso e tutto da definire.
“L’uva di Troia ha tutte le potenzialità per creare un grande vino identitario – afferma Cocchini – ma è necessaria una riflessione sull’interpretazione di quest’uva sia in vigna che in cantina.
“I produttori devono porsi delle domande. Ad esempio, qual è il migliore sistema di allevamento, anche in base alla zona, il filare o il tendone? Quale la produzione massima per ettaro se si vuole ottenere un’uva di qualità e quale il livello di maturazione ottimale;
“E ancora quando arriva in cantina come va lavorata? E’ un’uva che ha poco colore, ha quindi senso cercare di ottenerne di più per poi estrarre altre cose che squilibrano il vino? Questo per me significa interpretare un uva e mi sembra che con il nero di Troia ci sia ancora tanto da fare”.
NERO DI TROIA : COME COLLOCARE I VINI SUL MERCATO
Poi vengono problematiche tipicamente commerciali che andrebbero gestite meglio. Ad esempio, a volte i produttori, pur sapendo fare il vino, non lo sanno valutare. Così succede che vini quotidiani ma di pregio siano venduti a prezzi inferiori rispetto al loro valore. Oppure si insiste troppo su vini complessi che richiedono tempo per maturare (anche in termini di redditività), quando invece il mercato cerca proposte sì raffinate ma allo stesso tempo semplici e di più facile approccio.
NERO DI TROIA : I RISTORATORI NON LO SANNO RACCONTARE
Un altro paradosso del nero di Troia è che pur essendo un vino che vende tantissimo nella grande distribuzione fa poi fatica ad imporsi nella ristorazione. Soprattutto in quella locale. Bene inteso, non perché sia assente dalle carte vini, questo è un problma ormai superato, ma perché i ristoratori non lo conoscono ancora bene. Non sanno cioè coglierne i punti di forza e quindi non lo sanno né raccontare né proporre.
BISOGNA INVESTIRE SULLA COMUNICAZIONE
Ma a monte di questa incapacità dei ristoratori c’è in realtà una deficienza didattica e comunicativa. Una deficienza che deriva dal fatto che mancano eventi (sagre o incontri a tema) che permettano a questo vino di farsi conoscere e apprezzare dal grande pubblico. E soprattutto manca il coinvolgimento dei media che dovrebbero raccontarlo non solo più spesso ma anche collocandolo sullo sfondo del territorio di cui è espressione.
I PRODUTTORI DEVONO FARE SQUADRA
Infine, ma non perché meno importante, tutt’altro, manca una squadra di produttori, compatta e coesa, focalizzata a superare tutti questi ostacoli e a migliorare quindi le performance commerciali di un vino che per ora ha un’dentità ancora tutta da definire.
di Gianluca Bianchini 21/03/2019